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IL FUGGIASCO (Leggi l'intervista ad Andrea Manni) |
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Brutto giorno il 20 gennaio 1976 se hai diciotto anni, vivi a Padova, sei uno studente militante di Lotta Continua e ti chiami Massimo Carlotto. Il destino sta per riservarti una sorpresa crudele: soccorrerai la vittima di un delitto e da quel momento in avanti tutti i tuoi sogni si trasformeranno in un incubo pieno di bastonate, abbandoni e sinistri inceppamenti della macchina giudiziaria che dovrebbe riconoscerti innocente. Fermato. Arrestato. Imputato di omicidio. Come si dice: trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Da testimone a soggetto sotto accusa il passo è breve, se a qualcuno serve un capro espiatorio. Molti anni e molte fughe più tardi, nel tuo primo libro scriverai: "Ho un passato ingombrante. Per metterlo da parte e pensare finalmente al futuro ho dovuto usare cinque grandi casse di legno."Queste stesse parole aprono il bellissimo film che Andrea Manni ha tratto da una vicenda assurda e terribilmente vera conclusasi il 7 aprile 1993 con un provvedimento di grazia firmato da Oscar Luigi Scalfaro dopo 11 processi, sei anni di carcere e cinque di latitanza. Un progetto rincorso dal 1995 tra lo scetticismo dei produttori e che oggi, sia pur con una distribuzione inadeguata (un primo ‘test’ in poche sale a Roma e Padova, poi altre 30 copie in giro per l’Italia), arriva al pubblico vantando una solida sceneggiatura scritta a quattro mani con Carlotto, un cast artistico e tecnico credibile (su tutti, Daniele Liotti, Joaquim De Almeida, Roberto Citran, il direttore della fotografia Massimo Pau) ed un ritmo tutto in crescendo, da nervi scoperti e attese febbricitanti messo in risalto dalla colonna sonora di Teho Teardo (sue anche le musiche del prossimo film di Guido Chiesa). Il Fuggiasco è un thriller in cui l’assassino non viene scoperto e un innocente si ritrova a vagare, "latitante per caso", costretto ad occultare la sua vera identità tra Parigi, Barcellona e Città del Messico, aiutato da un gruppo di esuli politici guidati da Lolo, cileno fuggito da Santiago dopo il golpe del 1973 che nei suoi ultimi anni di vita sarà tra i fondatori del Comité International Justice pour Massimo Carlotto. La solidarietà degli ultimi della terra, l’amicizia di altri perseguitati e l’amore della famiglia, di chi a Padova continua a lottare in nome di una giustizia che non c’è ("Lascia perdere il caso" è il consiglio di un giudice chiamato al telefono da Alessandro Benvenuti nei panni dell’avvocato Vignoni) sono gli unici punti fermi quando i passi del protagonista vacillano e la speranza di tornare a casa libero si fa sempre più flebile. Sono frammenti di luoghi e fatti quelli che vediamo sullo schermo, un circolare di volti, corpi, paesaggi: "Parigi è una prigione a cielo aperto", come dice Lolo e il tempo che scorre è scandito dai verdetti di condanna, dai ricorsi della difesa, dalle sigarette bruciate notte e giorno in un susseguirsi di lacrime, travestimenti e scatti disperati. Il sogno di una cosa negata. La malattia, l’idea di farla finita come estremo gesto escapista: "Io in carcere non ci torno". Puntando sulla tensione, viene meno l’ironia amara che attraversa il romanzo, ma è un tradimento necessario per non confondere il caso Carlotto ed il film di Manni con una biopic tra dramma e commedia sulla falsariga di Prova a prendermi. L’immagine più forte ed emblematica: sulla spiaggia deserta, Daniele Liotti alza le braccia al cielo urlando: "Io sono Massimo Carlotto".
Nino G. D’Attis sul web: il sito dello scrittore Massimo Carlotto |
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