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DANIELE LUTTAZZI: Money for dope (Krassner/Emi) |
Un discorso interrotto vent’anni fa. Così si potrebbe sintetizzare lo ‘sfizio’ di Daniele Luttazzi, medico mancato ma entertainer praticamente completo ora che se ne esce fuori addirittura con un album di canzoni che, meglio precisarlo subito, NON è il solito disco da comico intenzionato a provare per qualche settimana il brivido della superclassifica. Che poi la stessa definizione di “comico” risulti inevitabilmente stretta sulle spalle di un personaggio intelligente e onnivoro è una cosa che in Italia hanno capito in tanti, a cominciare dai suoi nemici giurati. Quando penso a Luttazzi mi vengono in mente Lenny Bruce, Mark Leyner e Jonathan Swift: potremmo forse ridurre questi tre uomini straordinari al ruolo di comici? La risposta chiaramente è NO! Con la musica, l’autore di Adenoidi, Barracuda e Tabloid pare abbia flirtato per anni. Fin da bambino, nientemeno, tra studi di pianoforte e solfeggio e un nonno che suonava il corno nella banda di Rimini. Testardo, per sua stessa ammissione, ha continuato ad applicarsi instancabilmente anche molto dopo lo scioglimento del suo primo gruppo, i Ze Endoten Control’s, attivi sulla scena romagnola tra il ’78 e l’81. Money for dope, copertina austera, testi in inglese, total time: 43’ e 24” arriva un po’ a sorpresa a rivelare al grande pubblico un altro lato del signor L., nato Daniele Fabbri a Santarcangelo di Romagna nel 1961. Arriva, si lascia ascoltare (senza pregiudizi, please), già preannuncia un capitolo secondo ad inizio 2006. Il bandolo dei dieci brani è la storia (vera) di un’amica morta di overdose alla fine degli anni ’70. “L’idea era quella di comporre un musical elegiaco che raccontasse alcuni momenti di quella vicenda umana tragicamente interrotta: gli affetti familiari, le esperienze di vita, l’amore.” leggiamo nelle note del booklet. Le luci di Broadway, gli arrangiamenti ricercati (di Massimo Nunzio) che prevedono innesti di cori fantasiosi ma anche un sound spigoloso, tra pop e new wave con punte di jazz che cattura l’attenzione nel primo pezzo, quel Silence non a caso datato 1979. Oppure l’incedere ritmico bowiano, gli inserti funk con basso e fiati potenti in Doom. Ancora, le bellissime chitarre che animano la lunga coda di Letters on fire; la voglia sfrenata di ballare che mettono addosso la surreale Vienna, Vienna e I Can’t stand it (in zona disco-revival, con annesso superbo assolo di piano elettrico); la title-track che in chiusura si rivela una signora ballad da ascoltare col fiato sospeso e un po’ di batticuore (sarà che a me il violoncello accoppiato al pianoforte mi fa sempre un certo effetto). La title-track, ecco: è così bella che può permettersi di prenderti alla gola per farti stare un po’ male. La voce di Luttazzi ricorda in maniera impressionante quella di Stan Ridgway. Accoppiata al lavoro di una supersquadra di musicisti reclutati nel giro jazz italiano, riesce nell’intento di non annoiare mai, neppure nei due-tre momenti deboli dell’album (su tutti Easy to be fooled, un po’ troppo in zona Donald Fagen). Chiaro e tondo: vent’anni dopo valeva davvero la pena metterle fuori, queste canzoni. As the Talmud says: “A miracle doesn’t happen every day”.
(J.R.D.) |
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