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DAVID BOWIE: Stage (Emi) |
“Il momento che ci si sente al sicuro, si è morti. È finita. Ed essere al sicuro è l'ultima cosa che io voglio.” (da un’intervista rilasciata a Cameron Crowe, Playboy, settembre 1976)
“And who can bear to be forgotten And who can bear to be forgotten” (Ricochet)
Breve lezioncina di storia del rock (rubando il pane a Bertoncelli): il 25 settembre 1978 David Bowie manda nei negozi Stage, doppio album dal vivo registrato alla Spectrum Arena di Philadelphia, al Civic Center di Providence e al New Boston Garden Arena durante il tour mondiale di Heroes in quei mesi ancora in corso. La band è di quelle che fanno davvero girare la testa: Carlos Alomar alla chitarra ritmica ed Adrian Belew alla solista, George Murray al basso, Roger Powell alle tastiere, poi il percussionista Dennis Davis dietro i tamburi, Simon House, violino, Sean Mayes al piano. Splendidi gli scatti di Gilles Riberolles scelti per la copertina. La cazzata che farà storcere il naso ai fans la combina invece il produttore Tony Visconti che pensa bene tanto di ordinare i 17 brani delle quattro facciate in ordine cronologico e non di esecuzione quanto di eliminare quasi del tutto gli applausi del pubblico. Ma il disco è bello, me ne rendo conto meglio adesso, ovvero ventisette anni più tardi, che si tratta di uno dei live più trascinanti di tutta la storia del rock insieme a Live at Leeds degli Who e a No sleep ‘til Hammersmith dei Motörhead. Me ne accorgo in occasione della ristampa in digipack impreziosita da tre bonus tracks (Be my wife; la cover di Alabama song di Weill e Brecht, più Stay) che arriva nei negozi contemporaneamente a quella di David live (1974), primo album tratto da uno show dell’artista (al Tower Theater di Philadelphia, per la precisione, in una tappa del ‘Diamond Dogs Tour’). Bowie è in forma smagliante: superfluo sottolinearlo adesso poiché stiamo parlando retrospettivamente del periodo di massimo splendore creativo del Thin White Duke, quello cioè inaugurato nel 1976 dal cupo Station to station e proseguito con il soggiorno berlinese e l’alleanza artistica con Brian Eno. Prima di Stage c’è la doppietta costituita da Low ed Heroes, entrambi datati 1977. Heroes, eletto album dell’anno dalla rivista inglese Melody Maker, è ancora oggi considerato a pieno titolo l’opera più matura di Bowie, un disco da dieci e lode dal punto di vista compositivo che vede la partecipazione del Re Cremisi Robert Fripp alle chitarre. Ancora, nel primo scorcio del 1978 Bowie è il narratore di una nuova versione di Pierino e il Lupo di Prokofiev registrata con la Philadelphia Orchestra. A marzo, con la regia di David Hemmings e Kim Novak e Marlene Dietrich come colleghe sul set inizia le riprese di Just a gigolò, secondo lungometraggio in veste di attore e cocente flop al botteghino (ricordo perfettamente il pasticcio: nel film il Duca interpreta un reduce prussiano della Prima guerra mondiale che tenta la sorte nella Berlino postbellica e finisce col fare il gigolò). Bei tempi, vero? Ma la stessa affermazione si potrebbe fare a proposito di altre fasi successive del signor David Robert Jones da Brixton: il 1980 di Scary monsters (and super creeps); il 1982 di Let's dance; l’ultimo guizzo nel 1995 con 1.Outside, prima ed unica parte di un trittico annunciato e repentinamente abbandonato, oltre che album in cui si registra il breve ritorno alla collaborazione con Eno. Stendiamo un velo pietoso sul Bowie odierno (Hours, Heathen e Reality) limitandoci ad osservare che un divo con la calcolatrice in mano e un codazzo di commercialisti, maghi della finanza, esperti di marketing è molto peggio di un divo fuso di testa e rompicoglioni. Anche se lui ha impalmato l’ex top model somala Iman e vostro cugino Ziggy Scipionico una buzza rompicoglioni di Albano Laziale. Allora d’accordo, quel Duca è un caro ricordo, però hanno ristampato il suo disco dal vivo migliore, una fotografia che torna dal passato mantenendo intatti i colori. Remastering digitale: impeccabile. Momenti di deliquio: “Heroes” (che te lo dico a fare?) e Five years. Si parte con Warszawa e si arriva al capolinea con la scoppiettante TVC15. In mezzo c’è una bella fetta di storia per voi giovani adoratori di Bublé: “I wanted to believe me / I wanted to be good / I wanted no distractions / Like every good boy should...”
(J.R.D.) |
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