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MOS DEF: The New danger (Geffen) |
Dante Terrell Smith AKA Dante Beze AKA Mos Def è nato a Brooklyn, New York, nel 1973. Musulmano (ai suoi concerti non è consentito vendere alcolici, nei suoi video, le donne non sono mai ritratte come oggetti sessuali), sostenitore dell’attivismo nero e di ogni forma di resistenza artistica allo stato di sonnolenza in cui le case discografiche dei bianchi hanno sprofondato il rap col potere dei dollari. Come attore, ha recitato nella serie televisiva The Cosby Mysteries e in sette pellicole, tra cui Bamboozled (2000) di Spike Lee, Island of the dead (2000) di Tim Southam e Monster’s ball (2001) accanto a Billy Bob Thornton e Halle Berry. Prossimamente dovremmo vederlo ancora sul grande schermo nella Guida galattica per gli autostoppisti, dal celebre romanzo di Douglas Adams, ma è con il successore di Black on the both sides, promettente album uscito nel 1999 che ci troviamo a fare i conti al momento. Via la macchina da presa, avanti il microfono. Se il nostro dice: “Non sono ispirato soltanto dall’arte nera, ma dalla buona arte, dalle rappresentazioni artistiche sincere e genuine", gli crediamo ciecamente. Chiamato dai De La Soul a sparare rime in Big Brother Beat, poi leader dei Black Jack Johnson (alla batteria il possente Will Calhoun, alla chitarra Dr. Know, proveniente dai Bad Brains) band nata tra amici che deve il suo nome alla gloria del primo campione di boxe afroamericano (1908, categoria pesi massimi, al tappeto l’australiano Tommy Burns). Influenze dichiarate: i versi di Gil Scott Heron, l’hip-hop di Big Daddy Kane e dei Jungle Brothers, ma anche il jazz di Miles Davis e Ahmad Jamal, gli incroci tra rap e funk dei Living Colour, il Marvin Gaye del periodo aureo (What’s going on). Tutti ingredienti che ritroviamo ben amalgamati nei 18 episodi del nuovo disco, bello fin dal titolo: The New danger, roba che arriva dalle strade meno sicure della Big Apple e che sembra la sintesi riuscita di tutte le fonti sopracitate reinterpretando con una visione personale molta musica afroamericana. Prima di metterlo fuori, Mos Def si è esibito al Central Park insieme ad una big band, esperienza che probabilmente avrà un seguito. Ha provato e riprovato senza fretta con la sua voce nasale, con i suoi musicisti, per questo il lavoro funziona, trasuda blackness da tutti i pori. Colpisce con il free style di Boogie man (“I am the most beautiful boogie man / Let me be your favourite nightmare”), poi con le chitarre tutte spigoli e wah-wah di Freaky black greetings, quindi con Sunshine, costruita sul campione dell’arcinota Let the sunshine in dei Fifth Dimension, dalla colonna sonora del musical Hair. Più scontate Ghetto rock (il punto debole è il suo trattenersi un po’ troppo oltre l’omaggio in area De La Soul), e gli artigli spuntati di Zimzallabim. Meglio il lungo blues elettrico di Blue Black Jack con coda di chitarra alla B.B. King e storytelling ispirato. Meglio Bedstuy parade end funeral march, ancora blues da notte rovente e profonda: parte come se agli strumenti ci fossero i Doors del 1967, a metà diventa se possibile più oscura, preparando il terreno alle volute di flauto di Sex Love and Money. E The Panties, lasciatemelo dire, è una perla di love song: breve e vibrante, mai sopra le righe, benedetta dallo spirito guida di Gaye. Un classico istantaneo. Mos Def rimette in circolo (ed era ora!) una musica piena d’anima capace di far star bene la gente. (J.R.D.) |
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