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ADRIAN SHERWOOD: Never trust a hippy (Real World) |
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È stata la Real World di Peter Gabriel a convincere il signor Adrian Maxwell Sherwood al sospirato passo solista. Il comunicato stampa riferisce che l’interessato, nato a Londra nel 1958, svezzato alla musica giamaicana all’età di undici anni e tuttora indiscusso ‘godfather’ della On-U Sound (etichetta fondata nel 1980 insieme al fotografo Kishi Yamamoto), stava lavorando su un remix dei Temple Of Sound & Rizwan-Muazzam Qawwali quando Never trust a hippy ha preso forma. L’album arriva a sorpresa, dopo anni di immersioni nei suoni degli altri e con una solida reputazione di guru del mixer pari a quelle di Teo Macero, Bill Laswell e Brian Eno. Precoce, molto precoce, il signor Sherwood: adolescenza trascorsa consumando i vinili di Lee Perry e King Tubby, i cataloghi Trojan e Upsetter, a diciassette anni mette in piedi la Carib Gems Records per stampare in Inghilterra la sua musica preferita (Prince Far I in testa). Giusto per fare un po’ di storia, diciamo che l’alba del dub bianco lo ha visto tra i suoi protagonisti insieme al bassista Jah Wobble e che dal 1978 al 2003 la lista degli artisti prodotti da Sherwood non ha smesso di allungarsi, affiancando ai nomi di Eric Clarke, Depeche Mode, Nine Inch Nails, The Cure, anche quelli di due grandi formazioni italiane: Pankow e Almamegretta. Ora, Sherwood scende in campo con un disco a suo nome ed è subito chiaro che non si tratta di una tentazione passeggera ma, al contrario, di un impegno covato a lungo tra una collaborazione e l’altra, il risultato felice di infinite contaminazioni (indimenticabili i flirt con il noise industriale di Mark Stewart o col tribalismo degli African Headcharge). Reggae urbano, dissolvenze, eco di ritardo, ma non solo. La rana immortalata sulla copertina dice molto sulla filosofia dell’autore: saltare sempre da un punto all’altro del pianeta per non affondare nelle sabbie mobili, attingere indistintamente (e senza pregiudizi di sorta) dal patrimonio di ogni cultura, prima tra tutte quella africana. Dentro questi 11 brani passano dub, rock, funk, jazz, inserti di talkover e derive elettro-psichedeliche in una formidabile sintesi di esperienze eterogenee. "Sci-fi world dancehall...dub wise" dice lui, precisando di aver immaginato un album senza tempo, "trans-generazionale", fresco ed interessante anche tra una trentina di anni. Partecipano al progetto la tromba di Harry Beckett, le voci dell’indiano Hari Haran e del rapper Ghetto Priest, il violino di Sovra Wilson-Dickson, la potente sezione ritmica giamaicana del duo Sly Dumbar & Robbie Shakespeare (in Haunted by your love e Strange turn). Quando parte il divertente gioiellino dance-hall No dog jazz sai già che il maestro ha vinto la scommessa monopolizzando le tue orecchie con un antipasto leggero di raga-dub spaziale prima di trascinarti dentro l’ipnotica Hari up hari (valorizzata dai micidiali interventi ritmici curati da Steven 'Lenky' Marsden, allievo di Dumbar). Se Boogaloo ha qualcosa dei mediterranei Almamegretta, X-planation gravita nell’orbita world-trance degli ultimi Chemical Brothers, mentre Dead man smoking sfrutta porzioni tratte dall’album di S E Rogie Dead men don’t smoke marijuana (Real World) e Paradise of nada remix (versione dell’omonimo brano dei Temple Of Sound & Rizwan-Muazzam Qawwali su Peoplès colony No 1) sembra il risultato di un incontro al vertice tra i Primal Scream e Miles Davis. Bella anche The Ignorant version con le vocine di Denise ed Emily Sherwood e le ritmiche di Carlton ‘Bubblers’ Ogilvie. Ottimo viaggio, signor Sherwood. Vale i soldi del biglietto. (J.R.D.) sul web: www.onusound.co.uk |
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