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CALEXICO: Feast of wire (Quarter Stick) |
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La frontiera tra gli Stati Uniti ed il Messico è da sempre, nell’immaginario collettivo, un pianeta a sé, un colorato purgatorio dove sognatori e desperados ammazzano il tempo affogando il passato nella tequila e ignorando l’illegalità che li circonda. Orson Welles, nel suo capolavoro L’Infernale Quinlan (come dimenticare il piano sequenza iniziale) è riuscito a tradurne degli aspetti in immagini. Immagini crudeli e cariche di disperazione, nonostante un Charlton Heston ridicolo nell’impersonare un messicano fin troppo abbronzato. La colonna sonora ideale, involontariamente alternativa, l’hanno composta John Convertino e Joey Burns, sezione ritmica dei Giant Sand sotto l’ammaliante nome di Calexico. Ricordo ancora la tournée che fecero in Italia qualche anno fa insieme alle Freakwater: con l’aiuto di tre mariachi spaesati armati di tromba infuocarono il pubblico del Link di Bologna. I dischi dei Calexico, in particolare Black light e Road map, hanno il merito di ammaliare anche l’ascoltatore più indolente. È uno di quei gruppi che io chiamo "svoltaserata": se avete organizzato una di quelle cene con quindici persone dai diversi gusti musicali provate a mettere uno dei loro dischi e dopo cinque minuti diventeranno oggetto di discussione: "ma chi sono?" "da dove vengono?", "me ne fai una copia?". Chitarre dolcemente pizzicate e fiati morriconiani incontrano le musiche tradizionali europee come la polka o il valzer creando suggestive ballate orchestrali. Poi viole, violoncelli e vibrafoni ti mostrano il lato più romantico del deserto e delle creature che lo popolano. Impossibile restare indifferenti ad una carica così innovativa. Dopo le collaborazioni con i Friends of Dean Martinez e Lisa Germano realizzano nel maggio del 2000 Hot Rail che continua il percorso intrapreso nei precedenti lavori ma dove comincia ad affiorare un sottile manierismo. Ora, con Feast of wire la svolta pop. Non che ci sia nulla di male (si pensi al bellissimo Amore del tropico dei Black Heart Procession), ma in questo caso ci troviamo di fronte ad un album troppo pulito e dagli arrangiamenti un po’ ruffiani. Scorre, piacevole, talvolta intrigante come nella tzigana Pepito o nella marcetta paesana di Close behind, ma nell’insieme delude e fa rimpiangere i bei tempi andati. Solare e furbescamente sereno Feast of Wire, anche grazie all’aggiunta di sonorità lounge piacerà a molti, soprattutto quelli che non hanno visto le loro esibizioni dal vivo o non possiedono una copia di Black light.
Jo Laudato |
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