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GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR: Yanqui U.X.O.

 

Riemergo a fatica dall’ascolto del nuovo, lunghissimo album dei Godspeed You! Black Emperor. Il quarto, contando anche il mini Slow riot for new zero Kanada E.P. In sole cinque tracce, sfiora i settantacinque minuti. E non stiamo parlando di canzonette che fanno muovere le chiappe: questa è roba invernale, plumbea, da cielo livido e maglioni doppi. In confronto, Michael Nyman è Tom Jones. Philip Glass è l’arrangiatore di Cher. Forse sto ancora cercando un buon motivo per giustificare i 18 € investiti per portarmi questo disco a casa (l’esplosione a ridosso del decimo minuto di 09-15-00?). Forse, a parte il titolo e la copertina, molto belli (Yanqui sta per yankee, U.X.O. per Unexploded Ordnance, ovvero gli ordigni inesplosi disseminati nei punti caldi del mondo), non sono del tutto convinto che sia musica buona per le orecchie del sottoscritto. Triste, romanticamente/pesantemente triste. Una musica che a tratti (Ok, solo a tratti) sconfina nell’insopportabile post-rock. O nel manierismo più bieco. Eppure...eppure. I G.Y.!B.E. sono amici di Steve Albini, chitarrista, produttore, anima dei Big Black, poi degli Shellac. Sono apprezzati dalla Oliver Stone e da Danny Boyle (che li ha voluti per la colonna sonora di 28 days, sua ultima pellicola). Sono, per loro diretta ammissione, complici e al tempo stesso denunciatari del sistema: "Though godspeed is guilty of profiting from hateful chainstore sales, we encourage you to avoid giving money to predatory retailers and superstores." si legge nella busta interna del cd. Onesti. Impegnati. E mandano in brodo di giuggiole i critici che conoscono a memoria i nomi di tutti i musicisti che di volta in volta hanno suonato sotto questa sigla. Non una band, piuttosto una formazione mutante nata a Montreal, Canada (esordio nel 1997 con F#a#¥, vinile della Constellation). Il nome pare che sia stato mutuato dal film Buraku Empororu del giapponese Mitsuo Yanagimachi che parlava di gangs giovanili. Ma i G.Y.!B.E. non fanno punk industriale, come sarebbe logico aspettarsi. Utilizzano Basso, batteria, chitarre, viole, violoncelli, nastri per dipingere scenari sonori da landa desolata, musiche per un funerale del presente. Altro amore dichiarato: Ennio Morricone.

Yanqui U.X.O. rinuncia alle parole, all’ingombro dei testi che pure non hanno mai avuto un ruolo determinante nell’economia dell’ensemble. Racconta l’orrore della guerra, gli abusi, la resistenza umana al peggio, servendosi unicamente degli strumenti. La marcia di Sharon su Al-Haram Ash-Sharif, ad esempio. La tragedia di chi nasce sotto una pioggia di bombe e diventa adulto in un attimo. La persecuzione delle idee (sinistro, all’interno della copertina, il modulo vuoto degli US Investigations Services per denunciare persone sospette).

Partenze pacate, ritmi in crescendo, intermezzi dissonanti. Come un notiziario televisivo affidato alle immagini (per morte improvvisa del mezzobusto di turno). Come un cupo allarme, una chiamata al dissenso, un seme di speranza sopravvissuto al disastro.

Sfinisce. Pochi minuti dopo averlo ascoltato per intero, ti accorgi di aver visto qualcosa oltre le rovine.

(J.R.D.)