Speciale Gabriele Salvatores: Io non ho paura, Intervista , Filmografia |
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IO NON HO PAURA |
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Questo film nasce dall’incontro tra un grande narratore ed un cineasta che non smetterà mai di sorprenderci. Sposando felicemente la pagina scritta e la pellicola, Ammaniti e Salvatores hanno costruito un film-mondo che, fin dalle prime sequenze, rapisce e imprigiona lo spettatore al suo interno. Si sono spinti a sud, per un western di cow-boys non più alti di Charlie Brown e di borghi rurali, di Fiat macilente con l’autoradio che diffonde le voci di Mina e Alberto Lupo tra i campi e le pietre arroventate. Indietro e a sud, al confine tra Puglia e Basilicata, fino agli anni Settanta dei biscotti Ringo, di Emilio Fede in bianco e nero, di Ivan Graziani e delle riproduzioni di gondole veneziane in bella mostra sul televisore. Mamme mediterranee, capelli e occhi neri (l’attrice spagnola Aitana Sánchez-Gijón), bambini dalle ginocchia sbucciate (straordinari nella loro infanzia non ricostruita ma in atto sul set), padri che tornano dopo lunghe assenze, assediati dalla necessità di ‘tirare a camparè (Dino Abbrescia, interessante new entry nella galleria di facce/corpi del cinema di Salvatores che oggi ci presenta anche l’ennesima sorprendente trasformazione di Abatantuono). La Barbie con un braccio solo. Le bici scassate. I racconti paurosi scritti sotto le lenzuola, alla luce di una piccola torcia elettrica. Le filastrocche recitate a mezza voce, pedalando di notte come un dannato tra i sentieri di campagna. All’inizio, lo smarrimento di trovarsi due volte dentro a un buco: nel buio amniotico della sala in cui proiettano Io non ho paura e in quello della prigione di Filippo, la creatura, l’ E.T. che si crede morto e perduto per sempre all’inferno. Prima di rinascere, facciamo in tempo a tracciare sulle pareti della prigione la frase ‘IO NON HO PAURA’: dichiarazione forte e per niente ingenua (solo gli adulti la usano in maniera balorda), esorcismo contro tutti i bau-bau in agguato. Poi siamo di nuovo bambini e fuori c’è il sole di un’estate infinita, la macchina da presa ci regala un impagabile tuffo nel grano dorato, complici la splendida fotografia di Italo Petriccione (che in conferenza stampa dichiarerà di aver usato proprio "I colori della memoria, una compressione cromatica verso i gialli e i marroni per gli esterni" perché "in un periodo in cui il cinema è scuro, decolorato, io volevo un colore emozionale") e le suggestive partiture per archi di Ezio Bosso. Tra il frinire delle cicale e le grida dei compagni d’avventura, ritroviamo il fiato necessario per portare a termine una corsa, il sapore di una sconfitta e l’attesa di una crudele penitenza. Sotto la superficie, lo intuiamo, alberga qualcosa di sgradevole. Sotto le spighe più bionde, o tra le pieghe degli incomprensibili discorsi che i grandi fanno tra loro a notte alta, c’è qualcosa che striscia. Una macchina del tempo, cinema che atterra sul pianeta dell’infanzia, sui miti e il mistero di un’età dolce e breve (tutto diventa ancora più veloce per Michele, un po’ come per il Danny di Shining con il quale divide la sorte di dover affrontare i fantasmi familiari in maniera diversa – più consapevole - rispetto al protagonista di Denti). Io non ho paura è un incanto espresso in tutta la sua enigmatica semplicità, dal buio agli occhi che fanno male, abbagliati dalla grande luce (la ‘luccicanza’, si diceva), dalle cose rivelate. Tocca corde profonde, come Spider di Cronenberg, o come un Alice nel paese delle meraviglie del XXI secolo.
(N.G.D'A.) |
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