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Regia: Gabriele
Salvatores |
Interpreti bambini:
Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro, Adriana Conserva, Fabio Tetta,
Giulia Matturro, Stefano Biase, Fabio Antonacci |
Interpreti adulti:
Dino Abbrescia, Aitana Sánchez-Gijón, Giorgio Careccia, Antonella
Stefanucci, Riccardo Zinna, Michele Vasca, Susy Sanchez, Diego
Abatantuono |
Soggetto: tratto
dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti |
Sceneggiatura:
Niccolò Ammaniti e Francesca Marciano |
Fotografia:
Italo Petriccione |
Scenografia:
Giancarlo Basili |
Costumi: Patrizia
Chericoni e Florence Emir |
Musica: Pepo
Scherman, Ezio Bosso |
Suono: Mauro
Lazzaro |
Montaggio: Massimo
Fiocchi |
Produzione:
Maurizio Totti, Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz,
Alquimia Cinema (Spagna), The Producers Films (Inghilterra) |
Paese: Italia
Anno: 2003 |
Durata: 96' |
Distribuzione:
Medusa |
Sito ufficiale:
www.iononhopaura.it |
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Questo film nasce
dall’incontro tra un grande narratore ed un cineasta che non smetterà mai di
sorprenderci. Sposando felicemente la pagina scritta e la pellicola,
Ammaniti e Salvatores hanno costruito un
film-mondo che, fin dalle prime sequenze, rapisce e imprigiona lo spettatore
al suo interno.
Si sono spinti a
sud, per un western di cow-boys non più alti di Charlie Brown e di borghi
rurali, di Fiat macilente con l’autoradio che diffonde le voci di Mina e
Alberto Lupo tra i campi e le pietre arroventate.
Indietro e a sud,
al confine tra Puglia e Basilicata, fino agli anni Settanta dei biscotti
Ringo, di Emilio Fede in bianco e nero, di
Ivan Graziani e delle
riproduzioni
di
gondole veneziane in bella mostra sul televisore. Mamme mediterranee,
capelli e occhi neri (l’attrice spagnola Aitana Sánchez-Gijón),
bambini dalle ginocchia sbucciate (straordinari nella loro infanzia non
ricostruita ma in atto sul set), padri che tornano dopo lunghe
assenze, assediati dalla necessità di ‘tirare a camparè (Dino
Abbrescia, interessante new entry nella galleria di facce/corpi del
cinema di Salvatores che oggi ci presenta anche l’ennesima sorprendente
trasformazione di Abatantuono).
La Barbie con un
braccio solo. Le bici scassate. I racconti paurosi scritti sotto le
lenzuola, alla luce di una piccola torcia elettrica. Le filastrocche
recitate a mezza voce, pedalando di notte come un dannato tra i sentieri di
campagna.
All’inizio, lo
smarrimento di trovarsi due volte dentro a un buco: nel buio amniotico della
sala in cui proiettano Io non ho paura e in quello della prigione di
Filippo, la creatura, l’ E.T. che si crede morto e perduto per sempre
all’inferno. Prima di rinascere, facciamo in tempo a tracciare sulle pareti
della prigione la frase ‘IO NON HO PAURA’: dichiarazione forte e per
niente
ingenua (solo gli adulti la usano in maniera balorda), esorcismo contro
tutti i bau-bau in agguato. Poi siamo di nuovo bambini e fuori c’è il sole
di un’estate infinita, la macchina da presa ci regala un impagabile tuffo
nel grano dorato, complici la splendida fotografia di
Italo Petriccione (che in conferenza stampa dichiarerà di aver usato
proprio "I colori della memoria, una compressione cromatica verso i gialli e
i marroni per gli esterni" perché "in un periodo in cui il cinema è scuro,
decolorato, io volevo un colore emozionale") e le suggestive partiture per
archi di Ezio Bosso. Tra il frinire delle
cicale e le grida dei compagni d’avventura, ritroviamo il fiato necessario
per portare a termine una corsa, il sapore di una sconfitta e l’attesa di
una crudele penitenza. Sotto la superficie, lo intuiamo, alberga qualcosa di
sgradevole. Sotto le spighe più bionde, o tra le pieghe degli
incomprensibili discorsi che i grandi fanno tra loro a notte alta, c’è
qualcosa che striscia.
Una
macchina del tempo, cinema che atterra sul
pianeta dell’infanzia, sui miti e
il mistero di un’età dolce e breve (tutto diventa ancora più veloce per
Michele, un po’ come per il Danny di
Shining con il quale divide la sorte di dover affrontare i fantasmi familiari in
maniera diversa – più consapevole - rispetto al protagonista di Denti).
Io non ho paura è un incanto espresso in tutta la sua enigmatica
semplicità, dal buio agli occhi che fanno male, abbagliati dalla grande luce
(la ‘luccicanza’, si diceva), dalle cose rivelate. Tocca corde profonde,
come Spider di Cronenberg, o come un Alice nel paese delle
meraviglie del XXI secolo.
(N.G.D'A.)