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LIARS: They threw us all in a trench and stuck a monument on top (Blast First/ExtraLabels) |
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“Ci hanno scaraventato in una fossa e ci hanno messo su un monumento”. Anche tradotto in italiano, il titolo dell’album dei Liars non fa una piega. Bellissimo, per un esordio garantito dalla storica Blast First di Paul Smith (negli anni d’oro etichetta di Big Black, Sonic Youth, Butthole Surfers e Dinosaur Jr). Scoperta durante un’ incandescente esibizione newyorkese, la giovane band con base a Brooklyn si è ritrovata in poco meno di un anno (e dopo una prima distribuzione del disco curata dalla minuscola Gern Blanstein) a dover fare i conti con l’ondata di stelline di cartone capeggiata da Strokes e White Stripes. Tutte ‘Next Big Thing’, secondo una critica generalmente facile ai colpi di fulmine. Quasi tutte stronzate colossali, a ben vedere. L’eccezione sono loro: Angus Andrew (voce/effetti); Aaron Hemphill (chitarra/drum machine); Pat Nature (basso/synthbox); Ron Albertson (batteria). Niente di nuovo sotto il sole, per carità: solo che – a dispetto del nome – questi tizi hanno l’aria di essere gente onesta con una missione precisa da compiere: rappresentare una valida alternativa al pattume nu-metal e all’interminabile processo di clonazione di Pavement e Nirvana. Le nove tracce del debutto sono state registrate in appena due giorni da Steve Revitte, sound engineer conosciuto per aver lavorato con Beastie Boys e Jon Spencer Blues Explosion. Confezione spartana, suono scarno che rimanda alla stagione del post-punk inglese (P.I.L., Pop Group) e a modelli americani come Trumans Water, Minutemen e Fugazi senza puzzare di nostalgia canaglia. Grown Men Don't Fall In The River, Just Like That, apertura aspra con un perentorio “Can you hear us? Can you hear us? Can you hear us?” urlato nel microfono, condensa in pochi minuti i primi Red Hot Chili Peppers ed i Nation Of Ulysses. Un caos naturale, venuto a regolare i conti con la coolness pianificata da discografici e scribacchini. Ora possiamo sentirli forte e chiaro. Possiamo drizzare le orecchie al funk sincopato/deviante di Mr your on fire Mr, restare incantati dai campionamenti primitivi che introducono The garden was crowded and outside (immaginate i Beastie Boys influenzati da Filippo Tommaso Martinetti) ed augurare ai Bugiardi un luminoso futuro (dovranno pur onorare degnamente l’accordo di cinque dischi con la Blast First). Se Nothing is ever lost or can be lost my science friend esplora cunicoli dub e We live NE of Compton fa il verso ai Blur di Girls & Boys con un (anti) ritornello pop buttato lì come una beffa, è solo per ribadire che questa band non mira al successo facile, al colpo da zona alta delle classifiche. Sporchi e arrabbiati (“Wève go tour finger on the pulse of America”), grati alle loro influenze più dirette (gli ESG, omaggiati/campionati fin dal titolo in Trembling walls buried me in the debris with ESG), non si fanno scrupolo di allungare il brodo con una coda di trenta minuti intitolata cripticamente This dust makes that mud; incubo doposbronza che mette a dura prova i nervi dell’ascoltatore girando ossessivamente intorno alle stesse note. Andranno lontano. E nessuno riuscirà a scaraventarli in una fossa. (J.R.D.)
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