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PRIMAL SCREAM: Evil Heat (Columbia) 

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Vatti a fidare di Bobby Gillespie. Lo scozzese amico di Irvine Welsh è una vera croce per i suoi discografici recentemente messi al tappeto dal fatto che, a poche settimane di distanza dall’uscita fissata, il nuovo disco dei Primal Scream risulta privo di una scaletta definitiva. Stesso discorso per il titolo della raccolta, i vari formati (all’edizione su cd dovrebbe essere affiancata una tiratura very limited in vinile doppio 12"), la versione destinata al mercato giapponese priva di Space blues # 2 e contenente Some velvet morning, cover di un vecchio hit di Lee Hazelwood e Nancy Sinatra rifatta dalla strana coppia Gillespie/Kate Moss.

Bobby Gillespie l’ha sempre sostenuto: "Dai Primal Scream potete aspettarvi di tutto". Adesso, per esempio, è il caos: mentre venivano consegnate alla stampa le prime copie promozionali, è giunta voce di un ritorno in studio della formazione per registrare un brano dal titolo Substance D. L’ultimo (surreale?) comunicato al mondo lo firma il tastierista Martin Duffy: "George Michael is the new Freddy Mercury, David Beckham is the new George Michael, Evil Heat is the new Primal Scream".

Chiaro come il sole, anzi: Deep hit of the morning sun, per dirla con l’abbagliante mantra elettro-psichedelico che apre la raccolta precedendo di pochi minuti il singolo tech’n’roll Miss Lucifer (pensate alle cattive ragazze, a Rollercoaster dei Jesus & Mary Chain, ad una Swastika eyes parte seconda).

Unica certezza: Evil Heat non passerà inosservato (e non solo per via di Bomb the Pentagon, pietra dello scandalo post-11 settembre ora diventata Rise). Qui ci sono le chitarre. Qui c’è l’anima dei Rolling Stones incapsulata e sparata su Marte. Qui c’è Ian Curtis che guarda con curiosità ad uno dei pochi gruppi cui dovrebbe essere garantito a vita un contratto discografico. C’è musica da ‘caldo cattivo’ in un album dal suono puro che tocca le corde del post-punk e di un rock mutante/mutato a forza di iniezioni di elettronica, ulteriore conferma di fedeltà ad un percorso personale fuori dagli schemi, dalle regole del business.

Fondamentale l’apporto creativo di Kevin Shields (My Bloody Valentine), Andy Weatherall, Robert Plant (armonica nel blues dallo spazio profondo di The Lord is my shotgun) e, ancora (probabilmente) Giorgio Moroder, Jagz Kooner, Jim Reid (Jesus & Mary Chain), Alec Empire. Un progetto aperto, più che una band, poiché dal 1990 i Primal Scream hanno smesso di essere una band in senso stretto. Lo spartiacque resta ovviamente Screamadelica, terzo album destinato ad essere il manifesto imprescindibile di un nuovo corso che nei dodici anni successivi alla sua pubblicazione ha prodotto altre prove interessanti registrando altresì sporadiche battute d’arresto (Give Out But Don’t Give Up, 1994 ed il relativo, disastroso tour USA insieme ai Depeche Mode).

Evil Heat arriva ad oltre due anni di distanza da XTRMNTR, capolavoro ignorato dal grande pubblico, disco nel quale confluivano praticamente tutti i grandi amori di Bobby Gillespie e soci: William Burroughs, i Joy Division, gli Stooges, Miles Davis e i Can, la ‘rivoluzione elettronica’ dei Chemical Brothers, lo sguardo allucinato di John Lydon. Ottimi ascolti, incontri determinanti (Gillespie ha cantato nei dischi di David Holmes, dei New Order e dei Chemicals), letture fondamentali, insomma. Anche qui gli ingredienti sono più o meno gli stessi, con lo strumentale A scanner darkly pensato come un omaggio a Philip K. Dick (prende il titolo da un romanzo ambientato in una società futura interamente schiava delle droghe sintetiche, riallacciandosi tematicamente ad Exterminator); una (Sick) City ancora più stoogesiana rispetto alla pur strepitosa versione presente su Bow down to the exit sign di David Holmes, invettive antiamericane (Rise piacerà molto a Lydon, meno a George Bush), equilibrio tra passato e presente (Autobahn 66: dai Kraftwerk al 2002).

Rispettare i miti significa attraversarli e stravolgerli: ecco la forza dei Primal Scream. Fanno a pezzi tutto in ossequio ai loro padri putativi, ad un background che comprende i Felt (gruppo di provenienza di Martin Duffy, coverizzato in Space blues # 2), gli Stone Roses per il bassista Mani, i Jesus & Mary Chain, formazione nella quale un giovanissimo (e perennemente ubriaco) Gillespie suonava la batteria. Il revival è per gli altri, lo lasciano volentieri all’indie rock (termine che Gillespie giudica osceno) dei vari Strokes e The Vines. Rigenerare, non emulare: questo è il segreto.

(J.R.D.)