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Questioni di tatto e di sicurezza
internazionale vietano in un momento così delicato per il nostro caro
vecchio pianeta l’uso di espressioni tipo: “Questo disco è una
bomba” oppure: “Un vero attentato alle vostre orecchie”.
Una cosa però posso dirvela: il titolo di lavorazione del
dodicesimo album degli Slayer a diciotto anni dall’esordio di Show No
Mercy era Soundtracks
of Apocalypse (ora destinato al cofanetto celebrativo previsto per il
2002). Nu Metal? Ragazzi, i Limp Bizkit sono perfetti per la festa di
compleanno della mamma. I Korn devono ancora conoscere la fase di
svezzamento. Gli Slayer invece, partiti da una Los Angeles contaminata da
punk ed heavy metal, hanno il vanto d’aver influenzato gran parte delle
formazioni death e hardcore estremo venute alla luce nelle ultime due
decadi (Morbid Angel in testa). Roba pesante, giusto per intenderci. Una
forza della natura sostenuta dalla voce brutale del cantante di origine
cilena Tom Araya. Approccio aggressivo, ritmica schiacciasassi,
immagine sinistra da barbari metropolitani e testi crudi che affrontano
argomenti per niente leggeri: guerra, violenza urbana, epidemie, assassini
seriali. Hanno prestato le loro canzoni al cinema (Less Than Zero; Dracula
2000), si crucciano di non aver potuto partecipare alla colonna sonora
di American Psycho, anche perché considerano Bret
Easton Ellis uno scrittore molto affine alla filosofia della band.
God Hates Us All, prodotto in team con Matt Hyde
(Porno For Pyros; Monster Magnet) non fa concessioni di sorta al mercato e
si colloca, sul piano strettamente qualitativo, allo stesso livello
di capolavori assoluti quali Reign in Blood (1986) e Season in
the Abyss (1990). Marci fino al midollo, gli Slayer. A partire dai
novanta secondi iniziali di Darkness of Christ, un disturbante
magma sonoro che sembra arrivare dalle viscere della terra e che anticipa
la scossa di Disciple. La produzione di Hyde si avverte soprattutto
nella scelta di porre in primo piano la voce (un timido tentativo in tale
direzione era stato comunque compiuto da Rick Rubin nel precedente Diabolus
in Musica del 1998). Secco e tagliente, Araya (complice il socio
luciferino Kerry King alla chitarra) spinge l’ascoltatore verso il
baratro oscuro di God Sends Death; New Faith; Cast Down.
Un volo nella schizofrenia pura. Le punte più alte arrivano a metà
percorso (Exile) e poco prima del gran finale (Deviance; Here
Comes the Pain) segnando ancora una volta il territorio di una
formazione compatta e inimitabile.
Bunky
J.
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