Antefatto.
Qualche tempo fa.
Aaltopiiri. Su un giornale di musica rock italiano, una fotografia. I due
Pan Sonic con occhiali da sole, coppola in testa. Però! Che bravi ragazzi…
Questi giorni. Kesto. Sullo stesso giornale, ancora una foto dei due. Uno,
con i capelli a caschetto biondi e un pizzetto corto. Borse sotto gli occhi.
L’altro, faccia paciosa, sguardo ironicamente e curiosamente intimidatorio.
Due terroristi sonici. Due killer. Di quelli che fanno il loro lavoro con
soddisfazione.
Prima immagine. Sbiadito, un pastore tedesco in movimento. Muro verde
scrostato, la scritta con dei numeri in argento.
Seconda immagine. Scritte bianche su un muro nero, in una lingua al
contrario. Giornata afosa. Il mare è tranquillo. Bambini che giocano sulla
sabbia. Il mare che si scroscia sulle pietre scivolose. Nelle orecchie le
prime sciabolate che tagliano l’aria, clangori metallici, bordate di
distorsioni degne di un Merzbow ormai lontano. Lamiere contorte e ritmiche
rotondamente acide, come vetri in frantumi. Si inerpicano fino al cervello
allontanandomi dalla realtà che mi saltella davanti agli occhi. Furore. I
brani vanno avanti, giocano a richiamare il silenzio e quello che viene
subito dopo, assalti morbidi che si trasformano, frequenze elettriche e
frese che tagliano il metallo. Distorsioni lancinanti. Riesco a riconoscere
senza leggerlo il richiamo a Keiji Haino, la sua voce che non c’è ma che si
riconosce benissimo. Subito dopo i Suicide. E viene in mente Medals, con la
voce di un Vega a volte in forma, a volte no. E come per il brano
precedente, anche qui la voce non c’è ma te la immagini, persa nella ritmica
intessuta dai due. Mayhem III è una maledizione deflagrante, che rimette in
discussione tutto. Ancora il gioco dell’attesa con una bordata di frequenze
ora alte, ora basse che si risolvono in una increspatura finale che porta a
Gravity, la fine, in cui viene accennata una melodia, ipnotica, che riporta
i sensi alla realtà, il sole alto e malato e i corpi bruciati distesi sulla
sabbia.
Terza immagine. Un furgoncino giallo con un fanale rotto con mezzo muso
sotto l’ombra degli alberi. Prima traccia. Un rumore metallico che sembra
quello di una manovella girata per mettere in moto il furgoncino di cui
sopra. Ingranaggi che si muovono. Un sibilo. E partono i bassi pieni e
rotondi, la ritmica martellante e morbida, sempre lo stesso clangore
metallico sotto. Qui siamo dalle parti di Aaltopiiri ma c’è qualcosa in più,
qualcosa che fino ad ora non c’era mai stato e che ancora non riesco a
definire. L’assalto della seconda traccia, la terza, la quarta nella sua
ritmica sconclusionata, ancora le mie orecchie che si riempiono di
frequenze, stavolta non c’è il sole, è notte, attorno aperta campagna e
zanzare. C’è il dub in questi pezzi, riconoscibilissimo, e anche la melodia,
strano ma vero. Il mio corpo si muove e ogni tanto sembra che in mezzo al
martellante frastuono morbido e incalzante ci sia la voce di qualche mostro
demoniaco. E si va avanti così fino ad arrivare all’undicesima traccia, che
si potrebbe facilmente sentire in una chiesa, forse frutto dell’esperienza
con Barry Adamson, che ti porta dritta al finale, che non ti
aspetteresti
assolutamente dai Pan Sonic. Il secondo cd è l’esatto opposto del primo, ma
suo complementare, l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. E intanto in
cielo ci sono le stelle e il profumo di lavanda arriva fino alle mie narici.
Quarta immagine. Cetriolini in un vaso di vetro. Delle foglie. A un certo
punto si sentono pure i grilli. Che cantano tra bordate impressionanti di
rumori lancinanti, attese, silenzi sospesi, fino ad arrivare a una specie di
melodia, e i grilli ci sono ancora. Poi tutto cessa. Ferri che vengono
sfregati, come una lama lenta che viene affilata su un acciaino. Ancora i
grilli, armonici alti e bassi sospesi che fanno pensare a qualcosa di
Morton
Subotnik, ma più lento. È l’omaggio reso agli esperimenti sonori di Alvin
Lucier.
Quinta immagine. Una bambina che ti guarda con un sorriso e gli occhi che ci
naufraghi dentro e ti sussurra attimi di fiato nel cervello e ti lascia
sospeso in un limbo, una placenta sonora. Lunghissima. Lisergica.
E poi c’è la fine. O almeno il senso di fine. Perché io riprendo in mano la
seconda immagine, quella con le scritte, scarto il cd, e mi faccio
travolgere ancora una volta dalle bordate techno. Perché un po’ ne sento la
mancanza, un po’ non vorrei che finisse.
Antonio Bufi
Sul web:
http://www.phinnweb.org/panasonic/
http://www.mute.com/pansonic/ |