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PAN SONIC: Kesto (234.48:4) (Blast First/Mute)

Antefatto.
 

Qualche tempo fa. Aaltopiiri. Su un giornale di musica rock italiano, una fotografia. I due Pan Sonic con occhiali da sole, coppola in testa. Però! Che bravi ragazzi…

Questi giorni. Kesto. Sullo stesso giornale, ancora una foto dei due. Uno, con i capelli a caschetto biondi e un pizzetto corto. Borse sotto gli occhi. L’altro, faccia paciosa, sguardo ironicamente e curiosamente intimidatorio. Due terroristi sonici. Due killer. Di quelli che fanno il loro lavoro con soddisfazione.

Prima immagine. Sbiadito, un pastore tedesco in movimento. Muro verde scrostato, la scritta con dei numeri in argento.

Seconda immagine. Scritte bianche su un muro nero, in una lingua al contrario. Giornata afosa. Il mare è tranquillo. Bambini che giocano sulla sabbia. Il mare che si scroscia sulle pietre scivolose. Nelle orecchie le prime sciabolate che tagliano l’aria, clangori metallici, bordate di distorsioni degne di un Merzbow ormai lontano. Lamiere contorte e ritmiche rotondamente acide, come vetri in frantumi. Si inerpicano fino al cervello allontanandomi dalla realtà che mi saltella davanti agli occhi. Furore. I brani vanno avanti, giocano a richiamare il silenzio e quello che viene subito dopo, assalti morbidi che si trasformano, frequenze elettriche e frese che tagliano il metallo. Distorsioni lancinanti. Riesco a riconoscere senza leggerlo il richiamo a Keiji Haino, la sua voce che non c’è ma che si riconosce benissimo. Subito dopo i Suicide. E viene in mente Medals, con la voce di un Vega a volte in forma, a volte no. E come per il brano precedente, anche qui la voce non c’è ma te la immagini, persa nella ritmica intessuta dai due. Mayhem III è una maledizione deflagrante, che rimette in discussione tutto. Ancora il gioco dell’attesa con una bordata di frequenze ora alte, ora basse che si risolvono in una increspatura finale che porta a Gravity, la fine, in cui viene accennata una melodia, ipnotica, che riporta i sensi alla realtà, il sole alto e malato e i corpi bruciati distesi sulla sabbia.

Terza immagine. Un furgoncino giallo con un fanale rotto con mezzo muso sotto l’ombra degli alberi. Prima traccia. Un rumore metallico che sembra quello di una manovella girata per mettere in moto il furgoncino di cui sopra. Ingranaggi che si muovono. Un sibilo. E partono i bassi pieni e rotondi, la ritmica martellante e morbida, sempre lo stesso clangore metallico sotto. Qui siamo dalle parti di Aaltopiiri ma c’è qualcosa in più, qualcosa che fino ad ora non c’era mai stato e che ancora non riesco a definire. L’assalto della seconda traccia, la terza, la quarta nella sua ritmica sconclusionata, ancora le mie orecchie che si riempiono di frequenze, stavolta non c’è il sole, è notte, attorno aperta campagna e zanzare. C’è il dub in questi pezzi, riconoscibilissimo, e anche la melodia, strano ma vero. Il mio corpo si muove e ogni tanto sembra che in mezzo al martellante frastuono morbido e incalzante ci sia la voce di qualche mostro demoniaco. E si va avanti così fino ad arrivare all’undicesima traccia, che si potrebbe facilmente sentire in una chiesa, forse frutto dell’esperienza con Barry Adamson, che ti porta dritta al finale, che non ti PAN SONICaspetteresti assolutamente dai Pan Sonic. Il secondo cd è l’esatto opposto del primo, ma suo complementare, l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. E intanto in cielo ci sono le stelle e il profumo di lavanda arriva fino alle mie narici.

Quarta immagine. Cetriolini in un vaso di vetro. Delle foglie. A un certo punto si sentono pure i grilli. Che cantano tra bordate impressionanti di rumori lancinanti, attese, silenzi sospesi, fino ad arrivare a una specie di melodia, e i grilli ci sono ancora. Poi tutto cessa. Ferri che vengono sfregati, come una lama lenta che viene affilata su un acciaino. Ancora i grilli, armonici alti e bassi sospesi che fanno pensare a qualcosa di Morton Subotnik, ma più lento. È l’omaggio reso agli esperimenti sonori di Alvin Lucier.

Quinta immagine. Una bambina che ti guarda con un sorriso e gli occhi che ci naufraghi dentro e ti sussurra attimi di fiato nel cervello e ti lascia sospeso in un limbo, una placenta sonora. Lunghissima. Lisergica.

E poi c’è la fine. O almeno il senso di fine. Perché io riprendo in mano la seconda immagine, quella con le scritte, scarto il cd, e mi faccio travolgere ancora una volta dalle bordate techno. Perché un po’ ne sento la mancanza, un po’ non vorrei che finisse.

 

Antonio Bufi

 

Sul web: http://www.phinnweb.org/panasonic/

                 http://www.mute.com/pansonic/