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PRODIGY: Always outnumbered, never outgunned (XL Records) |
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I Prodigy, sette anni dopo. Anzi: Liam Howlett senza Keith Flint il mohicano e quel demonio nero di Maxim, un po’ come i Massive Attack di 3D Del Naja versione one man band in 100th window. È il progetto che conta, non la personalità dei singoli elementi, specialmente quando hai venduto tre milioni di copie in tutto il mondo di un disco nella la prima settimana di uscita e la (video)sovraesposizione comincia a far sentire i suoi effetti meno piacevoli. “Ero stanco di quei Prodigy che avevano raggiunto il successo, soprattutto non potevo ripetere quella formula musicale all’infinito”. La lunga pausa post The Fat of the land (1997) interrotta nel 2002 dal singolo Baby’s got a temper, è servita a Howlett per individuare i punti critici spuntati insieme alla reputazione planetaria del combo: ripetersi, avrebbe significato andare incontro al suicidio artistico (e forse anche a quello commerciale, chissà). Si fotta l’industria. ‘Fanculo la Wipe Out Generation. Meglio prendere tempo, caricare nuovamente le batterie (del laptop), poi sfoderare un disco come Always outnumbered, never outgunned. Scritto in camera da letto “Con un paio di bicchieri di vino e James Bond su Dvd”, rifinito tra Londra e New York. Oggetto che in superficie potrebbe addirittura passare per una discarica di cianfrusaglie sonore, salvo poi scoprire poco a poco l’anima di un lavoro spigoloso che, oltre a mettere in fila una manciata di ospiti davvero speciali (Princess Superstar in Memphis bells; Juliette Lewis in Hot ride, i fratelli Liam & Noel Gallagher nella conclusiva Shoot down; e, ancora, Kool Keith, Twista, Shahin Badar e le Ping Pong Bitches, più il semisconosciuto Paul Jackson), opera una cesura tra passato e futuro, pur non rinunciando al proprio marchio di fabbrica. Quando parte Spitfire, sai che Howlett ti sta offrendo in apertura una versione buffonesca di Firestarter. Come dire: “togliamoci subito il dente e passiamo al pranzo vero e proprio”. Prego, signori. Guardatevi bene dallo storcere il naso se la tavola è imbandita con materiale di recupero, perché qui non si cercano intese facili e orde di fans in crisi d'astinenza ma scontri aperti, nemici veri contro i quali schierarsi. Ecco il trovarobato techno/house/hip-hop/big beat/electroclash, quel tocco dozzinale che farà gelare il sangue ai puristi: DE-LI-ZIO-SO! Il ritmo è debordante, mozzafiato. L’architettura è psicotica, teatralmente oscura allorché incontra i Nirvana di Love buzz in Phoenix. Questo è punk/funk in tutte le sue declinazioni: quando si addentra nel quartiere di Grandmaster Flash e dei Public Enemy (Get up, get off) e quando scippa l’inconfondibile giro di basso di Thriller a Michael Jackson in The Way it is per offrire in largo anticipo a George Romero una soundtrack adatta al suo prossimo zombie-movie. I Prodigy del 2004 pensano ancora al rigore primordiale del punk (Action radar), al furore scarno e pagano che altrove morirebbe sotto il peso di un superfluo calco estetico. Disco voodoo malata, avvolta in finta pelle, plastica, pezzi di metallo di scarto come un’opera di Rauschenberg. Techno + rap + sporche distorsioni sotto una pioggia di lustrini. “And I hate phony ass people / and I hate having no droll / and I hate ...ass clubs that don’t be havin no bitches that bring ‘em down to the floor” (Get up, get off). E i cani volano, proprio come nella copertina in stile altarino kitsch. Nuove direzioni: le strade per il club o per le grandi arene sono infinite, basta avere una mente aperta e la mappa giusta a portata di mano. (J.R.D.) sul web: www.theprodigy.com |
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