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BEANS: Tomorrow Right Now (Warp) |
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È un disco dei prossimi venti-venticinque anni, non c’è dubbio. Oppure è la colonna sonora di un film che John Carpenter non ci ha ancora fatto vedere (un remake o una seconda parte di Distretto 13, viene facile supporre). Del resto, così come è ritratto sulla bella copertina anni ‘70 di Tomorrow right now, l’ex MC dei prematuramente disciolti Anti Pop Consortium, ha proprio la faccia da personaggio carpenteriano: un duro sopravvissuto al brusco scontro con Priest e M. Sayyid, le altre due menti del mirabile progetto newyorkese durato discograficamente appena un biennio e cinque dischi (in realtà il trio era attivo con la sigla A.P.C. dal 1997), l’ultimo dei quali frutto della collaborazione con il pianista Matthew Shipp. Beans prosegue il rapporto con la Warp Records inaugurato dal Consortium ai tempi dell’E.p. The Ends against the middle e lo fa consegnando all’etichetta ‘bianca’ di Autechre e Aphex Twin, un album pensato nel segno dell’hip-hop delle origini ("Il primo hip-hop era sempre elettronico", ebbe a dire in un’intervista a The Independent). Le sue rime, nutrite dal carburante dello slam movement, dall’energia di poeti come Saul Williams ma anche da collaborazioni artistiche senza barriere (Prize di Arto Lindsay, nel 1999), poggiano su piattaforme di elettronica costruite con basslines geometriche e beats essenziali. Poesia sintetica, metallica, nuda: qui non si balla facilmente, a meno che non si accetti di pensare ad una musica da ballo per corpi androidi, manipolati che si dondolano in un mondo artificiale. Il singolo Phreek the beat non era certo il classico specchietto per allodole: è sufficiente ascoltare l’iniziale Roar per cogliere il carattere monolitico di Tomorrow right now, lievemente scalfito da un paio di numeri di scat (Crave) e di puro tecnicismo comunque divertenti, mai banali o messi lì in funzione di riempitivi. Momenti particolarmente ispirati si ritrovano nella tensione house uptempo (Jeff Mills, la scuola di Chicago) di Rose Periwinkle Plum, nella bossa aliena di Sickle cell hysteria (piacerà senza ombra di dubbio ad un certo Richard D. James) seguita dal fluido spoken Booga sugar, quindi in Mutescreamer, quasi una produzione ‘Dr Dre stylè scarnificata, ridotta ai minimi termini e nell’ipnotica Raping silence. Quello di Beans è davvero un debutto interessante, articolato su uno spostamento di contesto, una visione futuristica dell’hip-hop coraggiosa nel suo disfarsi di ogni (prevedibile) ipertrofico accessorio da hit per realizzare la contaminazione di vari ambiti di ricerca. Un disco moderno quanto il recente American supreme dei Suicide, nell’uso di strumenti freddi (da sala operatoria), di grooves ibridati e parole che lasciano il segno ogni volta che scalfiscono l’orecchio.
(J.R.D.) |
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