Ecco
un bianco del XXI secolo che ha imparato a pasteggiare con vino, house,
psichedelia e black music senza rimasticare niente. Holmes è lo stesso pazzo
irlandese che due anni fa diede alle stampe Bow down to the exit sign,
cinematica esperienza per le orecchie (di Living room, il film
vero e proprio, non abbiamo più avuto notizie) ‘girata’ in studio di
registrazione con un cast indimenticabile: Jon Spencer, Andrew Innes e Bobby
Gillespie dei Primal Scream, il poeta Carl Hancock Rux e Martina
Toppley-Bird. Certo, lui è anche quello dei Disco Evangelists, degli
Scubadevils, di Johnny Favourite (12" su Warp Records) e delle
superlative colonne sonore scritte per gli amici Soderbergh e Clooney (Out
of sight; Ocean’s eleven e di recente Confessions of a
dangerous mind). Un dj (dall’anima mod) che ha saputo far meglio di
tanti compositori di estrazione classica o rock prestati ad Hollywood, forse
in ragione del suo amore dichiarato nei riguardi di Bernard Herrmann, Ennio
Morricone e in generale per tutto ciò che concerne il grande schermo.
The Free
Association altro non è che l’ultima incarnazione del grand’uomo di Belfast
illuminato dal soul-r’n’b dopo anni a stretto contatto con la cultura techno:
un collettivo di musicisti con il nucleo base formato da
Steve Hilton, Petra
Jean Phillipson, Sean Reveron, più lo stesso Holmes che dal vivo raggiunge
le dodici unità e su disco aveva già debuttato con piglio situazionista nel
marzo 2002 all’interno della strepitosa antologia di ‘rare grooves’ Come
get it I got it.
L’opera prima
vera e propria ha del prodigioso e merita una segnalazione speciale tra
quelli che personalmente ritengo opportuno classificare come gli album
strappamutande dell’intera storia umana (ah, le perle di Muddy Waters,
Sly &
The Family Stone, JuJus, Parliament, Andre Perry!). È notte fonda, metti il
dischetto nel lettore, schiacci PLAY e nel giro di pochi secondi la stanza
in cui ti trovi diventa un club fumoso affollato di ‘tough guys’ alla
Iceberg Slim affiancati da bellezze afro mozzafiato. Guardare e non toccare,
ragazzi. Servitevi da bere, mettetevi comodi e ricordate che il viso pallido
dai capelli giallo paglierino e l’eterna sigaretta che gli penzola dalle
labbra è nella gang di Marcellus Wallace.
R-U Ready? All
right (Ah-ha!).
Repeat:
R-U Ready?
All right (Ah-ha!).
Attacco
fulminante con le prime due perle del lotto: il micidiale beat di Don’t
rhyme no mo affidato alle rime dell’istrionico MC Reveron, poi il mantra
ultra-sexy di (I wish I had a) Wooden heart con l’eccellente prova
vocale della Phillipson. Come si dice in questi casi, il meglio deve ancora
arrivare perché, dopo i preliminari, l’ambiente si surriscalda sul serio con
Le Baggage (di nuovo Reveron, in una cupa interpretazione di Tricky
più sfacciatamente credibile dell’originale), brano che non avrebbe
sfigurato nella soundtrack di un film come Training day. Impazzano i
fiati (stessa sezione usata per lo score di Ocean’s Eleven), il giro
di basso di Bob Hurst fa la sua porca parte ma è già tempo di immergersi nel
soul-funk vellutato di Free Ass O-C-8, nel dichiarato omaggio a Lady
Day in Somedays, poi nel (sempre più torbido) resto di un album che
sfoggia con classe da ‘buona la prima’ un lavoro di produzione maniacale.
Ascoltate Pushin’ a broom e rimarrete a bocca aperta. Da vera
canaglia-gentiluomo, Holmes vi invita a fare un salto ne La Dolce vita
(versione definitiva dopo i due segmenti demo ascoltati in
Come get it I
got it). Non basta? C’è Whistlin’ down the wind: northern soul,
blues alla nicotina, niente ghiaccio nel bourbon, grazie.
"FREE your
mind and your ASS will follow..."
Sono gli anni
’50. Sono gli anni ’60-’70. È il 2003, o così dice il calendario di
Pam
Grier affisso alla parete. Possibile? Non suona come un revival. Non suona
falso e furbo. C’è sudore, qui. C’è sesso. L’odore è forte, vero,
maledettamente contagioso. Ovvio che qualcuno, a scanso di incidenti calibro
38 con Vincent Vega dovrebbe far lampeggiare la scritta:
Attenzione: disco ad alta gradazione erotica!
(J.R.D.)
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