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Patti Smith non piacciono le compilations. Non ha mai permesso che la sua
etichetta discografica ne pubblicasse una per il semplice motivo che Patti
Smith non è un prodotto industriale. Lei arriva da un tempo senza internet,
dalla New York di Warhol, Mapplethorpe e del CBGB’S, da un suono secco e
levigato che qualcuno chiamò punk della Grande Mela, poi No Wave, poi,
evidentemente a corto di neologismi: rock. Perché, gira e rigira, sempre di
quello si tratta (e pazienza se oggi si straparla di punk tirando in ballo i
Blink 182). Patti Smith è ancora universalmente riconosciuta come la prima
poetessa del rock: apri un bignamino qualsiasi, un inserto allegato ad una
qualsiasi rivista musicale e la definizione è esattamente questa da
ventisette anni a questa parte. Pensi a Kim Gordon dei Sonic Youth, ai
Nirvana, ai R.E.M., a P.J. Harvey, ai
Radiohead e sai benissimo che la
musica che ami deve più di un caffè alla donna che urlò al microfono la
frase: "I haven’t fucked the past but I’ve fucked plenty with the future"
entrando di diritto in un gotha a netta maggioranza maschile. Il regno di
Lou Reed, di Iggy & The Stooges, dei suoni sporchi e distorti (Metal
Machine Music di Reed, il vero spartiacque) usati come arma per spazzare
via il rock dei dinosauri.
Pochi dischi: otto in tutto. Una discografia a dir poco
scheletrica, fuori dal business, che comincia in un’era pre-MTV con un album
prodotto dall’ex Velvet Underground John Cale e arriva a Gung Huo
(2000), lavoro accolto con particolare favore dalla critica, caratterizzato
dalla presenza di Tom Verlaine e Michael Stipe nella lista degli ospiti.
Land (1975-2002), doppio cd per un totale di
trenta brani, è dunque un’antologia da poetessa, non un volgare ‘Greatest
Hits’. Se ne parlava da mesi come di un piccolo scrigno delle meraviglie e
le aspettative non sono certo andate deluse, considerata la scaletta dei
‘classici’ stilata sul primo disco (sì, Enrico, c’è anche Because the
Night, non azzardarti a cambiare sigla a Fuori Orario), quindi le
gemme (provini, inediti in studio, registrazioni live) che affiorano sul
secondo. Piss Factory, il brano più vecchio del lotto, ci riporta
addirittura più indietro, nel 1974 e risulta co-prodotto da Mapplethorpe;
Notes to the Future, messo in coda, è stato invece registrato
all’interno della St. Mark’s Church di NYC lo scorso gennaio, tre mesi dopo
l’abbattimento delle Twin Towers.
Quando
partono le prime note di Dancing Barefoot
, Ginsberg è lì che congela Patti e
William S. Burroughs in una foto (lo so che l’immagine in questione è del 1996, c’è
scritto sul libretto, ma sto parlando del mio ascolto, del mio
stramaledetto viaggio nella canzone!) e questo è ancora un mondo che crede
alle Fender e alle macchine per scrivere. Patti e Uncle Bill: fuorilegge del
virus parola, scrittori che flirtano con le sette note in una relazione
stretta e perenne (Leonard Cohen, Lydia Lunch,
Nick Cave, Henry Rollins,
Irvine Welsh & Primal Scream, fino al nostro Emidio Clementi). Il furore di
Babelogue e Rock N Roll Nigger così lontano dalle canzonette
delle attuali ‘cantantessè; la bellezza di Gloria, Free Money,
Ain’t It Strange immutata dalle pieghe del tempo. Ė intensa When
Doves Cry: Patti incontra Prince, lo coverizza, lo fa suo, gli rammenta
il periodo in cui l’ispirazione girava a mille e da New York a Ruvo di
Puglia, tutti ballavano la musica del genio tascabile di Minneapolis.
Difficile ascoltare l’antologia senza staccare gli occhi
dalle pagine del ricco booklet illustrato da riproduzioni di locandine
storiche (The Rolling Stones with special guest stars Patti Smith Group;
Patti Smith + Television at Max’s Kansas City), appunti autografi,
fotografie firmate da Annie Liebovitz, Sue Rynski,
Kate Simon, Robert
Mapplethorpe, suo primo compagno. Poco prima dei ‘Greetings’, Patti rende
nota (l’avreste mai detto?) la sua presenza sul web all’indirizzo:
www.pattismithland.com promettendo "exlusive music, news, poetry, photos and
more". Questo è, in senso stretto, parlare di fucking with the future!
(J.R.D.)
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