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SONIC YOUTH: Sonic nurse (Geffen) |
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Ecco che ci risiamo. La pubblica accusa prende parola e allerta: «Niente di nuovo, è il solito disco dei Sonic Youth da dieci anni a questa parte!» Il cuore però la pensa in modo diverso, fa forza sulla ragione, approfitta di ogni spiraglio possibile per confutare un’insinuazione tanto spietata. No, non è vero: ci aspettavamo un fatto straordinario tipo la vecchia pellaccia sonica in combutta con Dj Hell, David Holmes, James Lavelle oppure (fantastichiamo ad oltranza, tanto non costa niente) con Andy Weatherall e il miracolo non è avvenuto neanche stavolta, d’accordo. Ma tra i dieci brani di cui si compone Sonic nurse ci sono perle come i 4’ e 51" di Kim Gordon and the Arthur Doyle hand cream o la finale, politica, Peace attack che dicono che a 23 anni dal suo debutto sulle scene, questa band continua ad esibire una buona tenuta di strada, prima ancora che un’agenda fitta di impegni con i fans vecchi e nuovi (due Dvd pubblicati quasi contemporaneamente al nuovo disco, una deluxe edition di Goo, un altro lavoro nella collana SYR, oltre al tour già partito e ai progetti collaterali dei singoli componenti). Più rock, più trascinante, più caldo e ricco di potenziali hit da mandare a memoria, eppure mai ruffiano. Sonic nurse, come le infermiere sexy e inquietanti dell’artista Richard Prince scelte per illustrare il booklet, alla maniera di una Kim Gordon vecchia solo anagraficamente che nell’iniziale Pattern recognition come pure nella sublime reincarnazione space-velvettiana di I love you Golden Blue non perde un grammo di appeal. Lei al centro, Moore, Ranaldo e Shelley (personalmente, continuo a considerare Jim O’Rourke un’appendice non necessaria al songwriting del gruppo), intorno, per sempre figli artistici maggiori di Glenn Branca e della più prospera stagione conosciuta da New York City. C’è tensione melodica nella lunga Dripping dream, rafforzata da stacchi e variazioni nel segno di molti altri classici affidati alla voce di Thurston Moore. C’è una linfa estatica che scorre nelle vene di Dude Ranch nurse: all’avvio, un drumming che ricorda i Pavement, al termine, uno sbuffo caldo di deserto doorsiano. Ampio furore di chitarre e testo che tira in ballo i grandi del blues ("B.B. King just turns on") in New Hampshire. Bella, anzi bellissima, anche Paper cup exit con Lee Ranaldo al microfono pronto a guidarci con pochi tratti di pennello verso il nocciolo noise del disco: trama granulosa, di un colore blu intenso, flashback di Daydream nation con quello scorcio di vicolo di Brooklyn catturato da un’auto che corre nella notte. Sonic nurse è in definitiva un album che beneficia di un respiro creativo migliore, rispetto ai precedenti e più rarefatti NYC ghosts and flowers (2000) e Murray Street (2002). Quasi un ritorno alla freschezza di Experimental jet set, trash and no stars di ben dieci anni fa, sicuramente un disco che si ascolta volentieri dal principio alla fine e che svela una grazia intrigante agli ascolti successivi.
(J.R.D.) |
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