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WU MING 1: New Thing (Einaudi, pp. 220, € 14,00)

Leggi in anteprima un estratto da New Thing  di Wu Ming 1 (in libreria dal 25/10/2004)      (Leggi l'intervista a Wu Ming 1)

 

C’è una foto di John Coltrane scattata nel luglio del 1966 al Parco Memoriale di Guerra a Nagasaki. Il gigante del jazz è assorto, ritratto in preghiera sul luogo in cui, nel 1945, un bombardiere americano sganciò quell’ordigno di morte sinistramente battezzato ‘Fat Man’. Ho pensato a lungo a questa immagine (in realtà mai vista dai miei occhi, poi “ritrovata” nel capitolo 18: L’uomo dei fantasmi), fin da quando nell’ultimo scorcio del 2001 ebbi notizia dell’inizio dei lavori intorno al primo libro ‘solista’ di Wu Ming 1, aka Roberto Bui, membro fondatore del collettivo Wu Ming. Devo esserci arrivato collegando (più o meno) inconsciamente il crollo delle Twin Towers al suono di Peace on earth, composizione scritta da Trane nei giorni del suo tour giapponese (è sul quadruplo Live In Japan, etichetta Impulse!) quindi l’anima di un uomo straordinario alla sensibilità degli autori di Q, 54, Asce di guerra e Guerra agli umani.

   Un libro può farti anche questo, prima ancora che tu possa leggerlo. “Oggetto narrativo”, lo definisce oggi l’autore, allontanandolo un po’ dalla categoria “romanzo” e svelando l’influenza sulla sua opera di modelli come Please kill me: the uncensored oral history of punk di Legs McNeil e Gillian McCain, We got the neutron bomb: the untold story of L.A. punk di Mark Spitz e Brendan Mullen e Gauleses irredutiveis: causos e attitudes do rock gaúcho di Alisson Ávila, Cristiano Bastos e Eduardo Müller. Libri in cui “il metodo di composizione e le strategie narrative imitano il linguaggio del documentario e della videoinchiesta”.

   New Thing veste tratti formali insoliti che portano ad un parziale straniamento dei materiali narrativi e puntano dichiaratamente al ritmo (nei titoli di coda si fa riferimento al montaggio cinematografico), alternando, tra cronaca e invenzione, frammenti di un monologo interiore di John Coltrane nei suoi ultimi giorni di vita, a interviste raccolte da qualcuno (chi?) quarant’anni dopo l’età che vide l'ascesa del John ColtraneBlack Power e della protesta contro il conflitto in Vietnam, poi le gesta del «Figlio di Whiteman», assassino seriale di musicisti afroamericani a Brooklyn.

   Le voci impresse su un nastro magnetico sono quelle di Green Man, Rowdy-Dow, Git-on-the-Good-Fooot, Thumbtack, Let's-Play-a-Game, Julia Mey: umanità che rievoca il periodo della New Thing, la rivoluzione del jazz libero di Albert Ayler, Archie Shepp, Bill Dixon, Eric Dolphy e naturalmente Coltrane. La "Nuova Cosa", unico evento davvero innovativo dai tempi del bebop della metà degli anni Quaranta: ritmi svincolati da schemi metrici, strumenti a fiato suonati energicamente, grande libertà ritmica e melodica.

  “Antijazz”, lo definirono i detrattori (in cima alla lista troviamo John Tynan, redattore della rivista Down Beat e Leonard Feather, famoso per non aver mai mandato giù tutta la musica di Trane). Dai loft della Downtown di New York City a locali di basso livello come lo Slugs sulla Terza strada, al catalogo di un’etichetta discografica come la ESP, piccola (e per qualche tempo esclusiva) realtà interessata al jazz d’avanguardia.

   New Thing significa soprattutto consapevolezza dell’immenso patrimonio culturale africano da parte dei musicisti neri che la praticarono. Un bene da contrapporre, anche con rabbia, allo skyline dei grattacieli, al monopolio schiacciante della cultura occidentale, alla visione di quei bianchi che, alla maniera dello storico Arnold Toynbee, non si erano fatti scrupolo di consegnare ai posteri frasi infami come “La razza nera non ha dato alcun contributo positivo alla civiltà”.

   Jazz against fascism. L’Africa, non gli Stati Uniti d’America. L'Olatunji Center of African Culture ad Harlem, inaugurato il 27 marzo del 1967, pochi mesi prima che John William Coltrane, nato Hamlet, North Carolina, il 23 settembre 1926, lasciasse questo mondo stroncato da un cancro al fegato. Africano. Negro. Nee-grow e nighrah. Nigger. Nigga. Afroamericano. Africano della diaspora. Africano (“È un gran casino, uomo, te l’ho detto”). Il pensiero di Malcolm X aveva trovato un varco ed era passato. Negli anni Cinquanta e Sessanta, Ornette Coleman e Miles Davis avevano denunciato la persistenza del razzismo in America ed erano stati accusati di razzismo al contrario. Durante le sessions di registrazione della sua Freedom suite, brano dedicato alle speranze del popolo nero, Sonny Rollins era stato messo al corrente dai produttori con cui stava lavorando della necessità di non turbare più di tanto gli ascoltatori bianchi.

   Agosto 1965: il quartiere di Watts a Los Angeles diventa teatro di una cruenta sommossa della comunità nera. 1966: Stokely Carmichael, che più tardi adotterà il nome di Kwame Ture, parla di autodeterminazione come strumento necessario per costringere i bianchi a trattare con i neri. Ad Oakland, California, Bobby Seale e Huey P.Newton fondano il Black Panther Party. 1966-1968: si moltiplicano le rivolte e gli scontri nei quartieri neri del Nord degli Stati Uniti. Governo Usa versus dissidenti interni. Strategia della tensione. Settembre 1969: con una dichiarazione al New York Times, J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI, definisce le Pantere Nere “la più grande minaccia alla sicurezza interna del Paese”.

La morte di Albert Ayler (suicidio? Omicidio?) ancora oggi avvolta nel mistero. Il «Figlio di Whiteman» era una creatura dei Federali? Dove sarà finita la giornalista Sonia Langmut, ragazza bianca di Albany, amica dei leaders della protesta? Sonia si portava dietro un registratore a bobine di fabbricazione tedesca (“non una Colt, non una Smith & Wesson, non una Luger. Solo un registratore, l’arma della critica”). Andava al Birdland, al Vanguard, scriveva di musica per il Brooklynite e un giorno si mise sulle tracce del «Figlio di Whiteman». Non l’ho ancora scritto, ma dentro New Thing la suspence è un ingrediente che non manca. E lo scenario è interessante. Un mare, non un acquario. Wu Ming 1, forte della frase di Trane “Puoi suonare anche un laccio per scarpe, se sei sincero” fa nuotare il lettore in un interim che contempla fatti storici, suoni e visioni vicini e lontani. Un urlo. Un assolo lancinante di scrittura dalle derive free (anche per i lemuri burroughsiani, per la Brooklyn “luogo della mente” reinventato assemblando letture, viaggi fisici e ricerche su Google).

   Ho rotto le palle per tre anni a WM1 con la domanda da un milione di dollari: “Quando uscirà il tuo romanzo?” New Thing è arrivato e non mi ha deluso. Potente come Fear of a black planet dei Public Enemy e Malcolm X più La 25ª ora, in assoluto i due migliori film di Spike Lee. Forte, importante, ricco di battiti urbani, di piani-sequenza bruscamente interrotti (magnetofono, camera a mano, sguardo debordante nel groviglio di strati temporali che sembrano diversi l’uno dall’altro e invece si sovrappongono fino a delineare un’unica terra di fantasmi), di passaggi che una volta letti, si inchiodano nella testa e non riesci a liberartene più. Un’altra frase del libro, prima di lasciarvi: “Questa storia va ben oltre il free jazz”.

Nino G. D'Attis 

 

sul web:  http://www.wumingfoundation.com/italiano/anticipazioni.htm

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